L’enigma della stagnazione
L’aggiornamento ISTAT del 12 agosto sull’andamento del PIL nel secondo trimestre 2016 ha riportato tutti alla realtà della crescita zero, abbandonando le attese che proiettavano fino a pochi mesi orsono un +1,6%, e ha rinnovato l’attenzione sul tema delle radici della non crescita e ancor più sull’esistenza o meno di soluzioni per una necessaria ripartenza. Si è ritornati al nocciolo della questione con un certo sgomento, come risvegliati da un inebriamento durato due anni, nel corso dei quali molti opinion leader, e in primo piano i rappresentanti del Governo, avevano diffuso un clima di fiducioso ottimismo, pur in assenza di interventi obiettivamente convincenti che potessero giustificarlo. Tale evidenza ci vale da stimolo per un’analisi-focalizzazione delle cause della stagnazione e per ricordare l’inopportunità dell’aver sottovalutato altre concause, forse meno esplicite ma tutt’altro che secondarie.
Le conseguenze della ‘depressione italiana’
Le conseguenze della depressione Italiana sono, in sintesi, rappresentabili da quattro indici inesorabilmente espliciti:
- Non crescita/decrescita – 9 % del PIL dal ’07
- Perdita verticale di competitività – 20 % da Germania
- Espulsione dal lavoro e disoccupazione da 7% a 11,5%
- Aumento del debito pubblico da 102% a 133%
È ormai noto e accettato presso la grande platea degli osservatori che le cause prime del tracollo italiano non provengono soltanto dalla crisi globale, ma che almeno tre grandi determinanti vi abbiano giocato un ruolo causale fondamentale. Si tratta della bassa propensione all’innovazione, della spesa in R&S solo del 1,3% del PIL (metà della media UE), della bassa produttività dei fattori fondamentalmente causata dal ‘nanismo’ e dalla non soluzione del nodo del basso valore aggiunto, ed infine della riduzione della popolazione attiva (< 60% vs. 74% in D).
Lo scenario di deflazione che si è instaurato sta inoltre provocando, dal lato dell’offerta, un pericoloso avvitamento di conseguenze concatenate: sovra-capacità e basso utilizzo degli impianti, caduta degli investimenti, calo di produttività e competitività, incapacità di stare nel mercato, ulteriore perdita di volumi, perdita di scopo dell’impresa, avvicinamento alla soglia di uscita dal mercato.
Dopo la deflazione: il rischio desertificazione
Le statistiche parlano amaramente chiaro: ci sono meno imprese e c’è meno voglia di intraprendere. Questo trend di progressiva riduzione del tessuto industriale sta delineando uno scenario di desertificazione del comparto manifatturiero dalle profonde implicazioni. Tra le più significative, il diradamento dell’humus che riguarda il capitale umano e la motivazione delle imprese, l’invecchiamento e il depauperamento della tecnologia e, più in generale, il rallentamento nella sostituzione e nell’aggiornamento del saper fare.
A ben vedere, e senza voler cadere nel catastrofismo, permangono nel quadro generale macroeconomico italiano una serie preoccupante di fattori di freno agli impulsi all’intraprendere:
- il calo tendenziale della produttività per una “difficoltà a fare salti tecnologici”;
- l’invecchiamento della popolazione e il calo della natalità;
- le incertezze nel quadro macroeconomico/politico globale;
- i rischi di ulteriore espulsione di lavoro umano da ITC;
- l’aumentato “rischio del fare” da frantumazione e disconnessione nel tessuto economico;
- la perdita di fiducia nell’investire (potremmo dire: “la liquidità langue senza un fine”);
- l’assenza di protezione o “assicurazione contro il rischio d’impresa”;
- la criticità del credito nonostante la grande iniezione di liquidità della BCE;
- la poca speranza che il “peso fiscale dell’amministrazione pubblica” si riduca.
Ci sono soluzioni all’enigma della non crescita ?
C’è da credere che, in assenza di svolte profonde in grado di incidere sulle variabili richiamate, non sia lecito attendersi cambiamenti significativi. È certo che la soluzione non può essere trovata dalle imprese da sole, né dal Governo con manovre puramente facilitanti; che non può essere assegnata a speranze di cambio dello scenario globale e, in definitiva, non può neanche essere delegata a generici auspici di un forte rilancio degli investimenti privo di finalità strutturali condivise. Fondamentalmente, c’è bisogno di una grande azione concertata nella quale tutte le parti – Governo, imprese, associazioni, finanza, consumatori, comunità – ritrovino ruoli e comportamenti attivi. Il fatto che non appaia all’orizzonte una sia pur teorica volontà di dare corso a tale “grande azione concertata” dovrebbe richiamare i responsabili di Governo e la classe dirigente in senso lato a un sussulto di senso di responsabilità e a un brusco ripensamento delle rispettive agende politiche. Per il momento l’enigma rimane irrisolto: non ci sono ancora né piani né disegni e nemmeno alcuna volontà di considerare e affrontare il problema.
Bruno Bigaran